"HO IMPARATO" di Luisa Nardecchia. 6 Aprile 2009: a sei anni dal sisma che ha sconvolto l'Abruzzo, perchè quella Terra amica viva una Pasqua di Vita nuova.

Luisa ha scelto come foto per l'articolo questa. E' pubblicata ormai in tutto il mondo, per cui è diventata "virale": una bimba siriana che si "arrende" davanti al fotografo scambiando la maccina fotografica per un'arma. Fonte: la rete internet.

HO IMPARATO di Luisa Nardecchia

“Le persone possono dimenticare ciò che hai detto e ciò che hai fatto.

Ma non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire” (Maya Angelou)

La prima cosa che ho imparato è stato a fare la spesa: me l’ha insegnato lo spazio che non ho avuto. Ci sono voluti mesi per abituarmi a non accumulare scatole e bottiglie, pasta e detersivi. Imporsi ogni giorno di non fare i “ringlicchi”, cioè gli accumuli di roba sui mobili, sopra ai pensili, dietro alle porte. Imporsi di non zeppare stipetti, armadi, angoli. Ora quel “troppo pieno” della mia vita precedente mi infastidisce, è un limite e uno svantaggio.

Ho imparato che lo sconto non c’è mai. Il tre per due conviene solo a chi vende: corri al negozio e poi compri sei volte più roba di quella in offerta per cui eri entrato.

Ho imparato a trasferire quest’ordine dal fuori al dentro: anche lì, butto quello che è logoro.  Occupa spazio e aria preziosa. So che ha un valore, so che ha dentro un pezzo di vita, ma quando è il momento deve lasciare spazio, e restare in quello che sono diventata.

Ho imparato a farlo anche con le mie parole.

E con molto altro ancora, che è bene non dire.

Riservo la memoria a poche cose. Non mi piace più razzolare in mezzo ai ricordi. Non mi piace chi lo fa. Ciò che deve restare è parte di me, ne sono io l’immagine che vive.

 Ho imparato ad arredare qualsiasi cosa, inclusi i tunnel. Perché a nessuno frega niente del tuo shock post-traumatico: il mondo ti chiede le stesse prestazioni che avevi prima. La fiumana della gente che ama sentirsi “efficiente” ti passa sopra e ti deposita sulla riva, come un sassetto leggero che ha concluso la sua parte nella commedia umana.

Ma ho imparato che dalla riva ti godi lo spettacolo.

Ho imparato a riconoscere le parole vuote. Spesso sono scritte benissimo, ma così tanto bene da nascondere il fatto che non hanno niente da dire.

Ho imparato a riconoscere l’arroganza di chi si crede potente, ma lo è solo dell’aria che muove. So alzare gli occhi, ora, e so stanare la vergogna in fondo a quelli di chi ho davanti. E ho imparato che ci sono quelli che non si vergognano, perché non conoscono la vergogna.

So scartare. So riconoscere i ciarlatani e i saccenti. E non ho nulla da scambiare con loro.

So sorriderne.

So mostrare riconoscenza e stima.

So distinguere le persone che hanno da vendere, da quelle che hanno da regalare. E voglio solo le seconde.

Ho imparato il nome di quei pochi che erano con me quando ero in alto, e sono rimasti con me quando sono caduta: cadere è stato il mio setaccio, la mia grande fortuna.
Si sta bene, senza il rumore dei cembali.

Ho imparato a godermi il tempo, e le strade, e perfino le macerie ammucchiate ai lati della strada. E la distanza dalla terra, sulla quale si è ospiti e passeggeri. A scegliere per me la parte migliore.

Abitando per sei anni in una casa precaria ho imparato che quello che hai intorno potrebbe diventare estensione del tuo corpo: potresti prenderne la forma, esserne il riflesso. E non deve accadere, devi essere vigile, proteggerti dal brutto che hai intorno proiettando fuori il bello che hai dentro. Non avrò più periferie di me stessa che finirebbero nell’incuria.

Ho imparato che la guerra non te la vai a cercare, ti capita.

E che la pace è una condizione che deve fare i conti con troppa gente.

Ho imparato che lo straniero ti vive accanto, e non ha colori diversi dal tuo: lo straniero è chiunque ti dica di non lagnarti e di non rompere, e te lo dice stando al caldo di una casa e di una famiglia che non ha mai lasciato.

Ho imparato che io sono stata lo straniero di qualcuno.

Ho più amici stranieri che italiani ormai: dai Bitlan ho imparato come si lotta, dai Gilka come si fa a tenere una pianta, dai Diaz ho imparato la capoeira. Mi sono vista con i loro occhi, ed ero io, ero io lo straniero. E ho imparato.

Ho imparato a leggere i suoni e le voci. Per esempio quando mi dicono “Uh, cara… ma stai ancora al Progetto Case? Quanto mi dispiace!” so leggere dentro a quel flauto se c’è una nota stonata.

E il bello è che quella nota non turba più il magnifico blues che suona dentro di me.

Ho imparato a sorridere di chi accumula, di chi colleziona, di chi sferza e di chi sputa.

Sorrido del suo sentirsi furbo e fortunato e del suo non vedersi com’è: brutto.

Brutto come una ricca signora griffata che ti parla senza accorgersi di avere il naso sporco: sei lì davanti, la guardi, provi imbarazzo e pensi che prima o poi le capiterà uno specchio davanti. E che davanti a quello specchio capirà che un vestito griffato non la salva dal brutto che ha nel naso.

Ho imparato ogni taglio, e che ce la faccio a non farmi ferire. Che l’ambizione e la volontà fanno i titoli, ma che i titoli non fanno la perizia. Mi guardo dai titolati di ogni genere che sanno il come ma non sanno il perché.

 

C’è una tecnica di combattimento che consiste nello sfruttare la forza del tuo avversario: non devi opporti, devi farti investire e devi sommare la tua forza alla sua. L’ho imparato da una persona incontrata per caso sulla strada, essenza della polvere dei crolli e cemento della mia ricostruzione.

Ognuno ha il suo terremoto: una malattia, un lutto, una perdita, un abbandono, una delusione, un tradimento, un fallimento, sono terremoti più piccoli e a volte più grandi di quando la terra trema. Bisogna imparare a sommare la loro forza alla nostra.

Devono essere lo specchio in cui guardarsi il naso.

Per le persone che hanno imparato, i sei anni trascorsi dal 6 aprile 2009 non sono stati soltanto “tempo”, o attesa di un ritorno ad una condizione che non potrà mai più essere. Hanno ricostruito, davvero. Certe rughe che prima vedevi sulla loro faccia non ci sono più. E sono molto, ma molto più belle di prima.

Questo è quello che ho imparato in questi sei anni.   

Luisa Nardecchia   

Immagine tratta dalla rete internet

La messaggistica di FaceBook di qualche giorno fa ha un mittente speciale. Quando leggo “Luisa Nardecchia” un cumulo di mozioni e di emozioni mi riportano a quel 6 Aprile 2009, quando alle 3.32 del mattino la ferita mortale della terra, che tremava in Abruzzo, incise nella carne lo spartiacque esistenziale di Luisa,  del  suo Popolo, della sua Città, L’Aquila. Che sentimmo subito anche nostra. Non solo perché ci apprestavamo a far nascere la nostra Onlus, dopo un cammino di anni come fondo di solidarietà che aveva riunito tanti amici intorno a valori comuni Non solo perché ci ritrovammo subito in strada col nostro gazebo a chiedere ai napoletani di “farsi prossimo” al dolore e alla sofferenza dei fratelli abruzzesi. Non solo perché portammo il frutto di quell’impegno, come goccia nel calice della solidarietà di tanti, ai nuovi amici del Liceo “Bafile” dell’Aquila. E con esso, portammo noi stessi, per un incontro. I volti… i volti si fecero da subito Storia del nostro voler cercare di aiutare, con semplicità. E fra questi, quello di una donna speciale, allora vice-preside, la professoressa Luisa Nardecchia. Scoprimmo sentieri di amicizia, che nonostante gli anni e la distanza, sono sempre lì, percorsi da desideri, impegni, voglia di vita nuova. L’Aquila e Napoli, due Città, due Terre che hanno conosciuto il dramma del terremoto s’incontravano…

Ho aperto subito quel messaggio di FaceBook, pensando - visto l’approssimarsi del sesto anniversario del sisma - di chiedere a Luisa quel contributo del suo pensiero che negli anni si è fatto dono prezioso per noi dell’Associazione e per i nostri lettori. “Ciao, Pasquale. Ho scritto una piccola cosa per il 6 aprile… se ritieni… se il palinsesto… “. Bellezza delle “antenne” sintonizzate sulla stessa frequenza esistenziale!

Ed eccoci qui, carissima Luisa. Grazie, ancora grazie per aver voluto condividere non solo un tuo articolo, ma una risonanza interiore. Che grida… ancora una volta. Che grida amore, che grida attese, anche tradite… Che interroga ciascuno. Mi consentirai un piccolo cambiamento della data di pubblicazione. Quest’anno il 6 aprile cade nel “tempo di Pasqua”, appena dopo  il giorno in cui festeggiamo il “passaggio” dalla morte alla Vita. Ecco, vorrei, pubblicare questo tuo scritto come contributo a vivere la “pasqua” meditando anche le tue parole. Perché il 6 aprile possa essere una spinta – finalmente – verso un “tempo” nuovo per la tua Città, la tua Regione, la tua Gente. Lanciando, insieme, mente, cuore e volontà oltre gli steccati degli egoismi, dei tradimenti, delle delusioni, delle falsità.  Che sia per L’Abruzzo, per L’Aquila, per te, per  tutti i nostri amici aquilani davvero Pasqua di Resurrezione.

Pasquale Salvio

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