L'Aquila ancora nel tunnel...

 

Un anno fa eravamo lì, nella zona rossa, con i nostri amici dell'Aquila, del Liceo "Bafile", con cui siamo gemellati nell'ambito del nostro progetto "Stringiamoci la mano". I media fanno filtrare notizie e servizi su una situazione, sostanzialmente ferma, di una ricostruzione ragionata e partecipata, aggravata dalla crisi in atto. E l'uscita dal tunnel buio, in cui sono caduti gli aquilani e gli abruzzesi, non si intravede... Le ferite, tutte, sono là, scoperte, dolorose... Abbiamo chiesto a dei giovani studenti come vivono questo "tempo", a tre anni circa dal sisma... Aspettiamo le loro parole, in verità già in passato accolte su questo sito, con la loro freschezza, ma anche con una diffusa sfiducia in chi non ha neanche valorizzato i loro lavori  e le loro idee sulla ricostruzione della loro Città, vista "nel 2019". Abbiamo anche chiesto ad una docente, Luisa Nardecchia,  nostra cara amica, di regalarci qualche riflessione, per sostenere il nostro gemellaggio anche nella narrazione del proprio vissuto quotidiano. Luisa, con la promessa di ulteriori riflessioni, ci ha autorizzati a riprendere un suo racconto di vita personale, pubblicato su "il Capoluogo", dal cui sito è stratto. Lasciamo alle sue parole la forza della bellezza e della verità che l'accompagnano, ringraziandola. 

 

"La vita nelle cose" di Luisa Nardecchia

L'Aquila, 15 nov 2011 -

Mentre guardavo desolata intorno a me, il Vigile del Fuoco si girò di spalle.

Ebbi la sensazione di quando il veterinario chiede a John Grogan: «Vuole che vi lasci da soli un attimo?» prima di praticare l’iniezione letale a Marley. Diversamente dal veterinario, il mio Vigile del Fuoco non poteva andarsene, non poteva lasciarmi lì dentro da sola, doveva assistere all’ultimo saluto alla casa, angelo custode alle spalle. Mio fratello mi dice: «Non vuoi portare via qualche altra cosa?».

La voce per rispondere non mi uscì. Risuonavano, in quel corridoio, feste e voci e giorni di pasqua e di natale, e la figura di mio padre, e i giocattoli, e quando Dino sbatté la fronte sul termosifone per colpa mia, e quando mi comprai due pulcini colorati che scorrazzavano ovunque e quando con la mia amica Paola comunicavamo con due telefonini rossi di plastica calando il filo dalla finestra del bagno e quando passavamo ore e ore nell’atrio del palazzo a cercare le mattonelle storte… «No, va bene così, grazie» ho detto al Vigile. Dopo un attimo, Dino torna dalla cucina con due sedie in mano: due sedie di castagno, non antiche, solo “vecchie”, come uscite dalla soffitta della Signorina Felicita, due sedie di castagno stile country, un po’ sgangherate, me le ricordo da sempre. Poco dopo, il Vigile del Fuoco mi si avvicina, ha in mano un orologio a muro, lo ha spiccato dalla parete di fronte, me lo porge, perché io lo prenda. Non dimenticherò mai quella faccia, quella mano che trema, anche se chissà quante volte gli era capitato di fare la stessa cosa, per altri, prima di ogni demolizione. Presi l’orologio, mi aiutarono a portare giù le due sedie. Dissi addio, mandai un bacio, lasciai la porta aperta. Non per la casa, per la vita, che non demolisse con lei. Poi mi rimproverai un po’: da quando? Da quando questo attaccamento alle cose? Perché? La rifacciamo! La rifacciamo più bella! La rifacciamo che non si inclina più!”. Poi capii che non era quello, era la vita, era chi non c’è più, era i 309, era i palazzi antichi, era gli avvoltoi che mi ruotano in testa da quasi tre anni ormai, profittatori della fragilità e della debolezza, era che non tutti capivano, era che il mio è sempre il lato sbagliato della strada. Era il dolore di mio padre, che sentivo dall’aldilà, per quelle care cose, per quegli oggetti, messi qui da lui a uno a uno, era il dolore di mio padre, che se ne andava un’altra volta, insieme a quegli oggetti che io stavo lasciando lì al macero tra le macerie.

Mi ritrovai per strada, due sedie, un orologio, e non sapere che fare.

 

«E mo’ queste ddò le metto, ché a casetta, se entrano loro, esco io?»

Le portai da Patrizio. «Me le tieni, Patrì? Magari un giorno me li ridai, chissà…».

Patrizio è uno di quelli che con le cose ci parla. Conosce il legno, il marmo, conosce gli impianti elettrici e l’argilla, i tubi e le tegole dei tetti. Solo gli zotici non capiscono che le sue sono mani di artista e che il suo cuore è un cuore di poeta. Patrizio mi capisce subito, non devo spiegare niente, non devo giustificare che non sono sedie antiche ma solo vecchie, lui capisce, abbraccia le sedie come due bambini, se le mette in macchina e poi abbraccia me, desolato… Sì che capisce, lui.

Passa un mese.

Ieri sera suonano alla porta di casetta, apro e davanti a me ci sono le due sedie, belle, lucide, rimesse a nuovo, come appena uscite dal falegname. C’è sopra un biglietto: «Sono contento di aver contribuito, con il mio intervento, a preservare questi due oggetti, che tu, con il profondo rispetto che nutri verso di loro, hai voluto salvare, legata ad essi da ricordi cari e lontani». Leggo, non faccio in tempo a dire «ma…» che dall’ombra sbuca lui, Patrizio, ridente con quella faccia da birbante. «Ti ho portato a salutare le bambine!».

Le cose… Le cose, loro, non hanno valore. Ma hanno il pregio di avere un’anima che unisce le persone. O le divide per sempre.

di Luisa Nardecchia