L'Aquila chiama Mirandola! di Luisa Nardecchia
Gli amici di Napoli mi chiedono una riflessione dall’Aquila sulla tragedia dell’Emilia. E’ scontato ribadire, a nome degli aquilani tutti, il dramma raccapricciante di rivedere le tende blu, la disperazione, i telecronisti in cerca di lacrime, i talk-show in cerca di colpevoli, i sismologi con la faccia da “non c’è da stupirsi l’Italia è sismica”, la Protezione Civile che sembra composta da volontari, e i volontari che sembrano invece professionisti. Perfino i monumenti-simbolo si assomigliano: per noi fu la Prefettura spezzata, per Mirandola è la torre dell’orologio spaccato. E’ normale e sacrosanto cercare istintivamente le somiglianze tra due drammi, è però doveroso riflettere poi sulle differenze, non certo per fare delle stupide classifiche, biecamente obbedienti al cliché del Nord lavoratore e del Sud piagnone, ma per capire meglio quello che ci è successo in questi tre anni. Si disse degli aquilani, i primi giorni dopo il sisma, che erano dignitosi e forti, combattivi e reattivi. Anche degli aquilani si disse che erano pronti a rialzarsi. Poi fummo trasformati in ingrati meridionali, per non aver accettato di vendere la città vecchia in cambio di pseudo-case nuove in periferia. E allora chi decide chi è “sobrio” e chi no? Vespa? Chi enfatizza il coraggio di una popolazione rispetto a quello di un’altra? Sgarbi? Discorsi beceri e grossolani, che “accomunano” e massificano dei giudizi sulle cittadinanze, per non dire sulle etnie, discorsi che si allineano su direttrici di gestione del potere, ideologie ben separate da quello che è, invece, il reale vissuto delle popolazioni. Non so se esiste ancora la Piramide di Maslow o se sia considerata ormai roba vecchia, ma ai miei tempi non potevi definirti istruito se non eri consapevole di ciò che Maslow aveva teorizzato sui bisogni primari e secondari: i bisogni di un individuo sono posti su una piramide. Alla base della piramide c’è la sicurezza, la sopravvivenza. Poi il cibo, poi la casa, poi gli affetti. Non puoi guadagnare un piano più in alto se prima non hai costruito quello più in basso. Salendo c’è il sociale, il politico, via via su fino all’arte, il massimo grado della piramide, ma anche il più lontano dalla base. Più stai in alto nella tua piramide, più ti dimentichi dei bisogni di chi è alla base. E tutto, ma proprio tutto, è determinato dalla quantità delle risorse a disposizione, diverse a seconda del livello della piramide. In questi tre anni di terremoto all’Aquila abbiamo constatato a tutti i livelli questo meccanismo, emerso in maniera limpidissima non appena le risorse a disposizione sono drasticamente diminuite. Abbiamo visto chi era al sicuro dimenticare il bisogno di sicurezza di chi non lo era, giurare il falso, approfittare, arraffare l’inutile. Persone protette, unite in clan, le abbiamo viste lucrare su altre che erano sole e si aggrappavano al poco rimasto. Gente che non ha perso nulla, dare dello stracciavesti a chi aveva perso tutto e lo gridava, e non lasciargli neanche la dignità del lamento imbronciato, non concedergli neppure il beneficio del grido o del pianto, salvo poi rubarglielo dalla bocca, quel grido, imitarlo, quando è stato il momento di venderselo, anzi di rivenderselo come proprio. Abbiamo visto ravanare nei mucchi dei panni donati anche quando di panni ce n’erano fin troppi, solo per il gusto di farlo. Stornare denari dai bisognosi del necessario, per darli a chi li ha usati per il superfluo. Abbiamo visto un sacco di gente dare il peggio di sé. Il darwinismo sociale premia chi ha bei gomiti, grossi e muscolosi. Mi ricordo che una delle prime cose che ho capito in tendopoli è stata che non sarei sopravvissuta facilmente restando una personcina “bene educata”. Una sera avevo bisogno di un pigiama pulito e nella tenda-vestiario ne avevo trovato uno, bello felpato, adatto alle notti già fredde di ottobre, e ce l’avevo in mano, quel pigiama, come un regalo di Natale. L’ho appoggiato un attimo su un cesto e qualcuno me l’ha portato via sotto il naso. Non ho saputo dirgli niente e ho dormito vestita, quella notte, prendendomela con me stessa per aver dimenticato da qualche parte la mia borsa con il cambio abiti. Mai però, neanche per un momento, ho pensato che avrei dovuto diventare anch’io un animale e contendermi un pigiama a gomitate. I tanti individui che non si animalizzano quando le risorse diminuiscono, vivono con orgoglio. E stanno in Abruzzo, in Emilia, nel Belice, in Irpinia, nelle Marche, in Umbria, e dove che sia. Sono quasi invisibili, hanno braccia senza gomiti, sono caparbi, hanno un brutto carattere, il profilo basso, induriti dalle difficoltà, diventano schivi. Qualcuno li chiama fessi, qualcuno sognatori. Molti di loro se ne vanno dalla loro terra, alla fine, a cercare contesti nei quali non siano costretti ad una animalizzazione obbligata. Quando c’è un dramma, insomma, amici miei di Napoli, la gente si divide in chi diventa animale e chi no, a tutti i livelli. E non è un fatto di istruzione o di cultura, di Nord o di Sud, di Emilia o di Abruzzo. Per chi non si animalizza non esiste terra o campanile, non esiste sangue o antenato che valgano la pena di perdere la propria dignità calpestando quella degli altri.
Tuttavia c’è qualcosa in Emilia di profondamente diverso rispetto all’Aquila. Si tratta di una sensazione tangibile, una sorta di maggiore preoccupazione collettiva, di tutela, quella che in Latino si chiama “cura”. In Emilia il territorio consiste in una rete industriale tessuta intorno alla zona colpita: c’è la consapevolezza sociale che se si ferma quel nodo, ne risentirà l’intera zona intorno, l’intera regione. Ecco perché il terremoto di Mirandola e dintorni è il terremoto di tutta l’Emilia. Da noi il terremoto dell’Aquila è divenuto quello di tutto l’Abruzzo per arraffare la carne buttata nella gabbia, per ravanare nel cesto degli aiuti, chi ne aveva bisogno e chi no. L’Abruzzo è una terra dura, divisa da montagne, niente rete per la terra dei cinghiali. E L’Aquila è ancora più dura, montanara e isolata com’è, con quell’alterigia di blasone antico che ha sempre infastidito le città limitrofe. Ma senza rete i disastri sono affar tuo. E’ evidente che la democrazia è il contrario dell’autarchia, ecco perché l’umanizzazione si ottiene attraverso una rete di relazioni che rendono la tua porzione di esistenza necessaria perché sussista anche quella degli altri. Le città, come gli individui, dovrebbero trovarsi dentro una rete economica, e la rete economica dovrebbe diventare poi rete industriale, produttiva, finanziaria, fino ad arrivare a quella culturale, umana e di solidarietà tra le comunità urbane e rurali. Non vedetela come una riduzione, amici, dico solo che forse dovremmo ribaltare il tavolo: non essere solidali perché siamo bravi, ma perché siamo comunque “legati” in rete, e un tuo crollo è anche un mio crollo. Ormai l’abbiamo sperimentato di persona: non può essere l’ideologia, non può essere la religione né i buoni sentimenti a costringerci a farci carico del prossimo colpito da una calamità, e a farcene carico con una carità statale pelosa che poi ti ricatta. Oggi, con un terremoto alle spalle, con una vita monca di tutto, io credo profondamente e crudamente che l’unica molla che consente di rialzarsi in questi casi è l’interesse e la convenienza comune affinché questo accada. I principi umanitari parlano un linguaggio diverso, certo superiore: in questo caso, amici di Napoli, l’aiuto si dà “amando”, addirittura. Ebbene, io credo che l’espressione “sussistenza in rete” possa bene costituire un terreno di dialogo comune tra laici e credenti, tecnici e politici, colti e incolti, per la costruzione di una società migliore. Ci sarà sempre un fortissimo gap, certamente, tra chi crede in un valore e chi spera in un guadagno: ma potrebbe essere un buon inizio per avviare una cultura della condivisione, una cultura della sicurezza, una scalata collettiva della piramide. Per non diventare animali. Per “restare umani”.